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Fusione nucleare: l’energia del futuro?

Autori: Riccardo Sansone, Pierluigi Tagliabue.

 

La fusione nucleare: stato dell’arte.

 

Negli ultimi anni sentiamo sempre più spesso parlare della fusione nucleare, descritta come la fonte energetica del futuro: pulita, virtualmente infinita e sicura. Troppo bello per essere vero? Forse no: nel corso di questo articolo speriamo di fornirvi le basi per capire le potenzialità, e gli ostacoli, che ci separano da quella che si prospetta come una vera e propria rivoluzione. 

 

Come funziona la fusione nucleare, e perché è diversa dalla fissione?

 

Ma, di fatto, cos’è la fusione nucleare? In parole povere: la fusione nucleare è un processo che permette di liberare energia tramite l’unione di due (o più) nuclei di atomi più piccoli in uno più grande. Per più di qualcuno questo potrebbe suonare strano, dopotutto ci è stato insegnato che la fissione nucleare libera energia col processo opposto.

 

La risposta sta tutta nella stabilità degli atomi: come regola generale, possiamo dire che un atomo più è ‘massiccio’ e più è stabile. Questa tendenza però è valida solo fino al Ferro (massa atomica 54), dopodiché vale il contrario: maggiore è la massa di un atomo e meno sarà stabile.

Il passaggio da una configurazione meno stabile ad una più stabile libera sempre energia sotto forma di calore. La conseguenza di ciò è che, per produrre energia, conviene unire gli atomi più leggeri e rompere gli atomi più massicci, come l’Uranio (massa atomica 238). Per ulteriori informazioni a riguardo, fate riferimento ad Albert e alla sua celebre E=mcˆ2. 

Inoltre, è importante notare che, al contrario della fissione, questo processo non è mai spontaneo e richiede una certa quantità di energia per essere attivato.

 

Ma allora, perché fare tanta fatica ad unire due atomi quando già possiamo romperne uno con la fissione? Per darvi un’idea, se con 1 Kg di carbone possiamo  produrre 8 kWh di energia e con 1 Kg di Uranio (235) possiamo produrre 24’000’000 kWh [1] (24 Milioni di kWh) , con 1 Kg di combustibile per fusione possiamo produrre  97’000’000 kWh (97 Milioni di kWh) [6]. Non male, non credete? 

 

Una volta appurato che la fusione si fa con atomi relativamente leggeri, non ci resta che scegliere il concorrente più adatto a ricoprire il ruolo di fonte energetica del futuro. Se il nostro caro sole riesce tranquillamente a far fondere elementi pesanti arrivando fino al calcio o al titanio (masse atomiche rispettive di 40 e 44), noi umani abbiamo deciso di restare umili e far fondere l’elemento più leggero che conosciamo, ovvero l’idrogeno. Per la precisione, due varianti specifiche dell’idrogeno, dette isotopi, ovvero il deuterio ed il trizio. Questi si contraddistinguono dal “classico” idrogeno per la presenza di (rispettivamente) 1 e 2 neutroni in più nel loro nucleo, garantendogli una massa leggermente maggiore, pur senza intaccarne le caratteristiche chimiche. 

 

Accantonando la finta umiltà di poco fa, questa scelta ha una serie di vantaggi: in primis, il rapporto fra energia rilasciata e energia fornita è molto molto conveniente (17.6 Megaelettronvolt rilasciati al fronte di ‘soli’ 0.004 MeV richiesti per azionarla, ovvero un rapporto positivo di 4400 a 1 [9]). Soprattutto il risultato finale della reazione di fusione è un atomo di Elio (lo stesso gas che usiamo per gonfiare i palloncini alle feste) ed un neutrone, di cui parleremo più tardi. Possiamo dunque affermare che la fusione, in teoria, è una reazione assolutamente pulita, che non genera CO2 né scorie.  Per riassumere, le reazione può essere scritta così: 

 


Fermarci alla formula però, non rende l’idea della complessità del fenomeno. Per assicurarsi che la reazione avvenga correttamente, è infatti necessario fornire, in entrata, una grande quantità di energia: l’energia di attivazione descritta pocanzi. Quest’ultima viene fornita sotto forma di calore. Una volta avviate le reazioni di fissione, si raggiungono temperature estremamente elevate (centinaia di milioni di gradi nel punto più caldo). A queste temperature si crea un nuovo stato della materia chiamato Plasma. Cerchiamo di capire meglio: se spostandosi da solido a gas gli atomi che compongono la sostanza si ‘slegano’ sempre di più, nel plasma addirittura gli atomi stessi si 'scompongono', allontanando gli elettroni dai nuclei e facilitando il processo di Fusione. Potete vedere il plasma come un brodo di elettroni e nuclei atomici!  

 

Una volta raggiunta la temperatura necessaria però, dobbiamo assicurarci che gli atomi restino molto vicini tra loro, così da potersi ‘schiantare’ l’uno contro l'altro e dunque fondersi. È proprio qui che le visioni divergono sul ‘come confinare’ questi benedetti atomi, e gli interessi politici entrano in gioco. Riuscire a confinare gli atomi correttamente per lunghi periodi di tempo è infatti necessario per permettere che la reazione diventi prolifica, ovvero che quest’ultima generi più energia di quella richiesta per sostenerla; questo traguardo prende il nome diBreakeven. 

 

A che punto siamo.

 

Ad oggi, la ricerca si sta dirigendo verso 3 diversi prototipi di reattori, che possiamo dividere in due macrocategorie: i reattori a confinamento inerziale e quelli a confinamento magnetico. Tanta ricerca viene fatta in USA per i primi, mentre i secondi sono più comuni nel resto del mondo.

Questi ultimi sono anche i reattori a fusione più famosi a livello mediatico. Sono infatti di ispirazione per il reattore Arc, la cui versione miniaturizzata viene utilizzata da Tony Stark (alias Iron Man) per alimentare le sue armature. Basato sul design russo del Tokamak, prende la forma di una gigantesca ciambella (termine tecnico: Toroide), al cui interno troviamo il plasma, confinato da enormi magneti che contornano la struttura.

Oltre ad essere una vera e propria impresa titanica da costruire e da spostare, questi magneti sono tra i componenti più importanti per il corretto funzionamento del rettore. Non solo hanno lo scopo di confinare il plasma, ma anche di ‘gestirlo’, così da evitare la precoce interruzione della reazione.  

 

Apriamo qui una piccola parentesi nella speranza di rispondere ad una domanda che sicuramente molti di voi avranno: che succede se il reattore va “fuori controllo”? Beh, in realtà solo una grande noia. Al contrario di ciò che succede in un reattore a fissione, qui è necessario che il plasma sia continuamente confinato: se per qualsiasi motivo dovessimo perdere il controllo sul confinamento del plasma, la reazione si fermerebbe all’istante in quanto non ci sarebbero più i presupposti per garantire l’esistenza del plasma. 

 

Nel tentativo di semplificare drasticamente il processo di controllo del plasma all’interno dei Tokamak, è stato implementato un terzo tipo di design: lo Stellarator, principalmente presente in Germania. Questo sofisticato progetto mira a semplificare le operazioni di controllo del plasma, tramite l’uso di magneti aventi forme e dimensioni ottimizzate per seguirne il naturale flusso, al posto di forzarlo a seguire una traiettoria. Un'idea sicuramente degna di nota, ma che ha nella sua realizzazione tecnica il più grande limite, in quanto questi ‘magneti ottimizzati’ sono molto più difficili da produrre e da assemblare.     

 

Infine, vi è il design basato sul principio del confinamento inerziale. Per dirla in parole poverissime, essa mira a forzare la fusione dei vari atomi non favorendone la normale collisione all’interno del plasma, ma ‘spingendoli’ gli uni contro gli altri tramite l’utilizzo di precisissimi laser. Questo design ha suscitato molto scalpore nel 2022, in seguito all’annuncio di essere riusciti a produrre più energia di quella necessaria al suo avviamento (il famoso ‘breakeven’) [7]. Un risultato senza dubbio storico ed assolutamente degno di nota, ma bisogna considerare che il design è talmente diverso da quello del Tokamak che il breakeven assume un significato molto diverso. Insomma, non è sufficiente a convincere la comunità scientifica a cambiare i piani attuali, che prevedono la costruzione (già iniziata) del più grande reattore a fusione al mondo: ITER, situato nel sud della Francia. Si tratta di un progetto internazionale in collaborazione fra ben 35 nazioni [5].

 

Limiti e opportunità.

 

Nonostante il primo plasma per ITER sia pianificato per dicembre 2025 (salvo ritardi che, ahinoi, sembrano molto probabili) la sua accensione sarà un passo importante, ma assolutamente non sufficiente per la commercializzazione della fusione. Questo perché ITER è un progetto prettamente scientifico, che mira a dimostrare la fattibilità della costruzione di un reattore di grandi dimensioni con un output di energia considerevole (l'obiettivo sono i  500 MW termici, non elettrici), ma non è progettato con lo scopo di fornire energia alla rete elettrica. È da considerarsi più come un prototipo piuttosto che un prodotto. Il vero reattore avente scopo di produrre energia per una rete è DEMO, progetto europeo la cui costruzione è stimata per l’inizio degli anni ‘40, ma la cui entrata in servizio è prevista non prima degli anni ‘50 [4]!

 

Perché tutti questi ritardi? Le risposte sono molteplici. La fusione nucleare è probabilmente il progetto più ambizioso mai realizzato dall’uomo. La richiesta di materiali è altissima (più di 30,000 tonnellate di acciaio appositamente creato per resistere all’ambiente interno del reattore, pari a più di 4 volte il peso della Tour Eiffel [8]). Inoltre, lo studio di questi appositi materiali è fonte di grandi complessità (diverse ancora irrisolte!). Dentro un Tokamak, l’ambiente è soggetto ad enormi radiazioni e campi elettromagnetici. Un’altra complessità riguarda la reperibilità del carburante: se è vero che la nostra disponibilità di deuterio è pressoché infinita, non possiamo dire lo stesso per il trizio. Esso dovrà essere prodotto inizialmente in diversi reattori a fissione nel mondo e col tempo potrà essere prodotto stabilmente dagli stessi reattori a fusione, in modo da garantire un ricambio infinito di trizio come carburante! Se ne consumerà tanto quando se ne produrrà! Avete capito bene, il reattore produrrà il suo stesso carburante. 

È importante notare che i materiali interni del reattore, durante il loro utilizzo, diventeranno radioattivi e seguiranno il processo di smaltimento e gestione comune a tutti i rifiuti radioattivi.

 

La grande differenza però è relativa alla durata dello smaltimento. I rifiuti nucleari vengono infatti divisi in 3 categorie: High Level Wastes (HLW), Intermediate Level Wastes (ILW) e Low Level Wastes (LLW), rispettivamente rifiuti di alto, medio e basso livello (dove con quest’ultimo ci riferiamo alla loro radioattività e pericolosità). I LLW e gli ILW sono prodotti non solo dalle centrali nucleari, ma anche da ospedali, centri di ricerca ed industria e possono essere smaltiti in centri di stoccaggio a medio termine. Quelli più problematici sono invece gli HLW (tipici delle centrali nucleari a fissione) che devono essere smaltiti per molto tempo (centinaia di migliaia di anni) e devono essere rinchiusi nei depositi geologici sotterranei. Detto ciò, recenti studi dimostrano che le centrali a fusione dovrebbero produrre meno della metà di ILW ed LLW (in metri cubi) rispetto alle centrali a fissione e ben 0 metri cubi di HLW[10]. Insomma, di rifiuti ne produrremmo ancora, ma certamente molti, molti di meno. 

 

Finora però, abbiamo fatto i conti senza l’oste. Affinché i reattori a fusione diventino davvero qualcosa su cui poter fare affidamento, c’è bisogno che diventino anche economicamente vantaggiosi rispetto alle altre fonti in commercio. Proprio qui, la palla passa degli ingegneri ai politici, che dovranno dare una mano ad incentivare una transizione verso una fonte nuova. Affidarsi semplicemente alla buon’anima di qualche miliardario, playboy e filantropo (cit.) che decida di investire autonomamente in questa tecnologia sarebbe leggermente utopistico. 

In conclusione, possiamo affermare che ‘Il potere del sole nel palmo della nostra mano’ come diceva il dottor Octaviusin quel capolavoro diretto da Sam Raimi nel lontano 2004, sembra essere ancora tristemente lontano. 

 

 

  


 

 

 

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