I Fatti di Genova.
Quando si parla dei “Fatti del G8 di Genova”, il primo pensiero va inevitabilmente alla morte di Carlo Giuliani. Un tragico incidente,certamente evitabile, ma pur sempre un incidente. Non vuol essere una giustificazione: Placanica, il Carabiniere ventenne che uccise Giuliani, pur avendo agito per legittima difesa (come stabilito dalla giustizia italiana e dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo), il grilletto l’ha premuto e un ragazzo è morto.
Indagando più a fondo la dinamica degli eventi, tuttavia, emergeun insieme di fattori che hanno compromesso l’ordine pubblico, e che avrebbero reso inevitabile che “ci scappasse il morto”. E le responsabilità di questo sono tutte politiche. I fatti della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto sono state scene inammissibili in uno stato di diritto, indegne per una democrazia occidentale, che costituiscono di fatto una violazione dei diritti umani, come stabilito dalla CEDU (precisamente del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti), messe in atto da agenti delleforze dell’ordine (individui, certo, non gli interi corpi) ideologicamente schierati, che hanno disonorato lo Stato che servono.
Com’è stato possibile che una manifestazione fondamentalmente pacifica (almeno all’inizio) sia stata trasformata in una guerriglia urbana? E di chi è stata la colpa?
Partiamo dall’inizio, da chi si trovava a Genova e perché. Il 30 novembre 1999, a Seattle, in occasione di un convegno dellaWorld Trade Organization (WTO), cominciava una mobilitazione popolare, spontanea, trasversale, contro il forum. La contestazione non era diretta alla globalizzazione strictu sensu, ma alla sua gestione neoliberista. La domanda di fondo, di maggior giustizia sociale, era piuttosto la summa di una serie di rivendicazioni salariali, di sostenibilità ambientale, rispetto delle diversità culturali, che caratterizzarono l’indeterminatezza ed eterogeneità del dissenso. Questa fu senz’altro la peculiarità del “Popolo di Seattle”: la saldatura di segmenti politici e sociali diversi, che si ricomponevano attorno ad una “nuova frattura”, verticale come fu quella marxista, tra “alto e basso”. I target erano prevalentemente le multinazionali e le organizzazioni internazionali, specialmente economiche e finanziarie, come la WTO e la World Bank, il Fondo Monetario Internazionale (FMI).
Due punti: primo, si riesce facilmente a rintracciare il nesso tra la frattura “top/down” e i partiti populisti e sovranisti odierni. Non nelle stesse forme ovviamente: un movimento sociale (a maggior ragione uno spontaneo e capillare come quello no-global) non sopravvive all’istituzionalizzazione, e di fatto i populismi hanno bene o male perso la base movimentista. Non la vocazione antisistema, né gli obiettivi, quasi gli stessi: il precariato, le banche, la finanza internazionale, gli organismi comunitari, disparità salariali, distanza tra popolo ed élite oligarchiche – l’unico elemento mancante è una opposizione latente o palese all’immigrazione clandestina, ma è pur vero che i fenomeni migratori dagli anni 2010 sono completamente diversi rispetto a prima. In secondo luogo, difendere le vittime non significa sposarne in toto la causa, ma bisogna ammettere che un po’ ci avevano visto lungo: l’ordine internazionale post Guerra Fredda, il sogno di un mondo più libero, equo e sicuro, era destinato ad infrangersi in una manciata di anni. L’11 Settembre, l’inizio della Guerra al Terrore e del Terrore; l’invasione di Afghanistan e Iraq, la pietra tombale sull’idea di “guerra a zero morti”, figlia dell’idealismo internazionalista; la Crisi globale del 2008 e l’Austerity; la crisi delle democrazie e il neo-isolazionismostatunitense (concepito ben prima di Trump).
Torniamo a Genova. La manifestazione contro il G8 fu l’ultima grande mobilitazione spontanea, fondamentalmente apartitica (nonostante i tentativi di Rifondazione Comunista di intestarsela), ideologicamente sovversiva e di dimensioni transnazionali in Italia. La prima dopo il Sessantotto, e anche l’ultima – agli amici del Fridays for Future: quando anche il Ministro dell’Istruzione invita a scendere in piazza, è una sfilata, non una protesta.
Se le modalità della protesta, la violenza e il saccheggio, travalicano del tutto la libertà di espressione, altre cause di diverso ordine (imputabili alla catena di comando e alle forze dell’ordine)che hanno creato un mix letale.
1) Scelte politiche sbagliate, a cominciare dalla scelta stessa di svolgere il G8 a Genova: la conformazione della città di per sé complicava la gestione dell’ordine pubblico. In più, si può attribuire sempre a livello politico la responsabilità di aver deliberatamente sostenuto l’uso della forza sui manifestanti – Scajola, ministro dell’Interno dichiarerà di aver autorizzato a sparare sulla folla, evento mai visto da Bava Beccaris in poi. Da ultimo, l’apparato mediatico ha scientemente creato, nelle settimane precedenti, un clima di ostilità, diffondendo notizie (clamorosamente false) di possibili attentati terroristici, infiltrazioni qaediste, uso di palloncini di sangue infetto da HIV. La responsabilità politica, peraltro, non è imputabile al governo di centrodestra appena insediatosi, perché mesi prima protocolli violenti contro i no-global sono stati applicati anche a Napoli dal governo Amato.
2) Errori di valutazione sul piano operativo. La selezione di giovani agenti della celere, stressati psicologicamente e ideologicamente schierati, e non di esperti, ha inevitabilmente alzato il livello della tensione. I protocolli di ingaggio, con cariche offensive e ripetute per ore, non hanno nulla a che vedere con la prassi di gestione dell’ordine pubblico (frontali e dispersive): la stessa carica di Via Tolemaide, che ha segnato l’inizio della guerra urbana, era frontale e diretta contro un corteo pacifico, mentre i Black Bloc si dirigevano verso il carcere e mettevano a ferro e fuoco la città indisturbati (Nota Bene: in tre giorni non ci saranno scontri tra Black Bloc e forze dell’ordine). Infine, ci sono stati errori cruciali dettati dall’opacità della catena di comando, con ordini poco chiari e poco tempestivi, che lasciavano i reparti schierati in preda al caos, accelerando l’escalation verso una violenza preventiva, rabbiosa e ingiustificata. I contatti tra i vertici della Polizia e degli organizzatori avevano previsto uno scontro simulato, uno sfondamento controllato della zona rossa, per dare alle due parti la possibilità di intestarsi un successo: se le forze dell’ordine applicarono poi una violenza indiscriminata, anche i manifestanti persero il controllo degli agenti provocatori e degli infiltrati dei Black Bloc. Anche gli scontri di Piazza Alimonda, nei quali fu ucciso Giuliani, videro ad un certo punto la presenza dei Land Rover dei Carabinieri (una follia: nessun protocollo serio introdurrebbe veicoli non blindati in mezzo ad un corteo), isolati durante la ritirata, uno dei quali venne infuocato.
Questa ricostruzione mette in luce cosa è andato storto nella gestione dell’ordine pubblico, che ha contribuito alla morte di Carlo Giuliani e alla diffusione e violenza degli scontri di piazza. Ma Genova non è stato solo questo: i fatti della Diaz e di Bolzaneto sono stati eventi paralleli. Certamente, il retroterra (il bombardamento mediatico e il livello di allerta) è lo stesso, ma non ci sono stati errori di valutazione o incidenti: sono state azioni repressive, di una violenza inaudita, deliberatamente messe in atto da Poliziotti e Carabinieri.
La scuola Diaz, adibita a rifugio, ospitava un centinaio di manifestanti che si trovavano a Genova. La sera del 21 luglio, circa 500 agenti tra Polizia e Carabinieri irrompono nella struttura, per una perquisizione che avrebbe dovuto trovare le armi dei Black Bloc. Nella Diaz non ci furono letture dei capi d’accusa, esposizione dei diritti, ma una “macelleria messicana”. Di 93 attivisti fermati, 82 furono condotti in ospedale per le ferite, 3 in prognosi riservata e un giornalista finì in coma. Le foto delle mura sporche di sangue fecero il giro del mondo – en passant: alla fine furono trovate solo due molotov, che erano state ritrovate il pomeriggio, non verbalizzate, e poste sul luogo da agenti della Finanza, e attrezzi prelevati da un cantiere.
Ma l’inferno non finiva qui: tutti gli arrestati dei giorni precedenti vennero trasportati nella caserma di Bolzaneto,centro di primo riconoscimento. Qui, oltre pestaggi, torture, violenze psicologiche, i detenuti venivano spogliati e umiliati,costretti a stare in piedi immobili per ore, le donne costrette ad assumere posizioni sessuali, tra risate e cori fascisti e razzisti: niente di così diverso da Abu Ghraib, se non peggio.
Amnesty International definì l’operato delle forze dell’ordine durante i Fatti del G8 “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda guerra mondiale”. In più, ad oggi, sono poche e di minor rilievo, le condanne ai carnefici: 250 procedimenti contro esponenti delle forze dell’ordine furono archiviati, e si ebbero poche effettive condanne ai diretti responsabili sia perché non esisteva ancora il reato di tortura in Italia (fu introdotto nel 2017!), sia per l’impossibilità di identificare i responsabili.
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